Nel paese della solitudine, una mamma una mattina si sveglia, in un istante troppo vicino al momento in cui ha preso sonno e troppo lontano da quello in cui sarebbe pronta, riposata.
Rimane seduta sul letto immobile, mentre ciò che più ama è aggrappato al suo seno, nutrendosi del suo latte, del suo amore, del suo tempo.
Dopo mezz’ora, forse un’ora, dal peso sembrano dieci, finalmente solleva quel cucciolo addormentato e lo stringe a sé, respirando a pieni polmoni il suo profumo intenso di vita. Lo lascia piano all’abbraccio della culla e approfitta di quel tempo calmo per uscire dalle vesti della notte e affidarsi al giorno.
Si lava il viso e il corpo con acqua fresca, le ci vorrebbe una bella doccia calda, per recuperare le forze, ma non è il caso adesso, è ancora troppo incostante il sonno del suo bambino.
Scivola poi in cucina senza fare rumore, la casa è calma, silenziosa e mentre si prepara il caffè accende la tv, un canale qualsiasi va bene, qualcuno che parli, racconti qualcosa, è quello che serve a riempire quel ritiro.
Mentre beve il suo caffè salvavita pensa a tutto quello che dovrebbe fare, “il pavimento da pulire, il bucato da stendere, cosa mangio a pranzo?, e per cena, che si fa?, scongelo qualcosa, fammi vedere…”. Mentre se ne sta lì col naso nel gelo, un suono intermittente ruba la sua attenzione, lo coglie, lo distingue bene dal rumore della tv.
È il suo bambino, è sveglio, “di già?”, e la reclama con quella disperazione assoluta e vitale che nessuna madre amorevole può ignorare. Prende il primo sacchetto che trova, lo butta sul lavandino e va a rispondere a quel richiamo atavico.
Appena quelle mani lo sollevano, le lacrime lasciano spazio a un accenno di sorriso, seguito da versetti dolci e indefiniti. Se lo appoggia addosso, lui si accoccola seguendo la forma del suo petto, ma non serve cantare, non basta passeggiare, non aiuta cullare, non vuole più dormire, ma non vuole nemmeno essere lasciato.
Vuole restare lì, tuffato nell’incavo del suo collo. E mentre la casa diventa una strada infinita da percorrere in ogni verso suonano alla porta
<<Chi è?>>
<<Sono io, apri>>
<<Ciao, cosa c’è in quella busta?>>
<<Ho portato delle cose per te, guarda, ho preso un “Se lo tieni sempre in braccio, poi certo che non riesci a fare niente”, e anche il “Se non dorme è perché ha fame, si vede che il tuo latte non gli basta”. Mi hanno consigliato anche questo “È furbo vedi? Ha già capito che se piange tu lo prendi su” mentre il “Lascialo piangere che gli fa bene” me lo hanno regalato. Ma non ho finito, guarda cosa ho qui “Non sei mica la prima, lo abbiamo fatto tutte”, che si abbina perfettamente con il “E allora io che ero da sola come ho fatto?”.
Ti piace? Ho preso tutto per te, per aiutarti. E adesso dai, fammi spupazzare un po’ questo bambino, così tu puoi dare una pulita a casa. Magari datti anche una sistemata ai capelli, che sembri uscita adesso dal letto. Cerca di fare veloce che ho solo mezz’ora, poi devo andare.>>
Poi (finalmente) se ne va, e la mamma resta di nuovo sola col suo bambino, nervosa lei, nervoso lui, triste lei, stranito lui. Manda giù un pacchetto di crackers e un pezzo di formaggio per pranzo, mentre anche il suo piccolo mangia, tra le sue braccia. E si addormenta, lo mette nel lettino ma si sveglia, vuole solo lei adesso.
E allora si allunga sul divano, col suo cucciolo addosso che dorme, e prova a riposare anche lei, mentre si chiede che ore siano, e quanto manchi all’arrivo del papà.
E manca tanto, ancora, al suo arrivo, e prima di lui arriva un messaggio “Sono bloccato in riunione, torno per cena”.
Certo, la cena! Per fortuna aveva scongelato qualcosa, ma chissà cosa.
Il bambino si muove, si sveglia. Lei allora si alza e ne approfitta per cucinare.
Apre la busta, resta immobile e inizia a piangere. Improvvisamente, dal nulla, lei piange.
Le è bastato guardare dentro il sacchetto e rendersi conto che sono fagioli.
Nient’altro che fagioli, almeno un’ora di cottura.
Ma lei un’ora non ce l’ha, non ha nemmeno mezz’ora, se ci pensa, nemmeno 10 minuti, in realtà.
È lì, sola con la cosa più bella del mondo, la cosa più bella che abbia mai fatto, e piange. Prima piano, poi i singhiozzi esplodono.
E si vergogna, e piange di più, e si sente ingrata, e piange ancora di più.
Il papà torna e li trova in lacrime, entrambi. Abbraccia quella mamma spezzata, abbraccia il suo bambino irrequieto.
È arrivata la notte, e alle mamme fa paura. Ma è arrivato anche il papà, e in qualche modo insieme ce la possono fare.
In giornate come queste, tutte uguali eppure tutte dannatamente imprevedibili, la doula è il tempo per una doccia calda e rigenerante, è il tè bevuto con calma tra una chiacchiera e l’altra.
È un paio di braccia in più quando il peso diventa troppo difficile da sostenere, è la tovaglia a fiori con un piatto di spaghetti al centro.
Quando lo sconforto arriva, è l’abbraccio caldo che accoglie e conforta, è l’argine che accompagna il fiume di parole, la foce che lo porta finalmente al mare.
È la cioccolata calda quando dentro si sente solo freddo, la pizza a domicilio quando l’unica cosa che si riesce a fare è una telefonata.
È la scala quando bisogna guardare dall’alto per vedere di cosa si è capaci, è il letto morbido quando la notte spaventa.
È la colazione in camera quando il giorno inizia troppo presto e la ninna nanna sussurrata quando invece sembra non arrivare mai.
La doula è il comfort mood della mamma.