Si va in trasferta. E me la godo!

Vienna

Ti svegli, apri la finestra, e c’è Vienna là fuori

Bene, con questo racconto voglio inaugurare la saga della “Madre Degenere”, quella che porta gli altri ad attribuirti sensazioni che non provi, o a stupirsi di fronte al modo in cui affronti certe situazioni, perché non è così che se lo immaginavano o perché loro non avrebbero fatto lo stesso. Un modo per accettare la diversità e riderci su, prenderne al solito il meglio e lasciare il resto. Mi sento una brava mamma, una che ce la mette tutta, se non altro, che cambia se stessa se si accorge di non essere ‘abbastanza’, per restare coerente alla sua visione di genitorialità. Per questo voglio provare a sdrammatizzare, a sorridere di quelle cose che non tutti comprendono o approvano. Perché la verità non è per forza di qua o di là, e non è nemmeno una sola, molto spesso. Parlerò di quando lascio Enea, di quando è malato, di come lo vesto. E altri argomenti arriveranno, nel mio percorso di Mamma Degenere.

Ma cominciamo, è ora. E lo faccio parlando della mia prima trasferta di lavoro. Della prima volta in assoluto che lascio Enea per la notte, da quando è nato. Per 3 notti, addirittura. Non è un #girotondointornoalmondo, parto per Vienna, in macchina con 3 colleghi, per partecipare ad uno dei meeting periodici di un progetto di ricerca europeo di cui facciamo parte. Ammetto che man mano che la partenza si avvicinava ero un po’ nervosa, più di come avrei reagito io, che lui. Concretamente per lui si sarebbe trattato ‘solo’ di qualche ora senza di me, visto che ci si sveglia la mattina insieme e poi prima delle 19 non ci si rivede. Ma per me, poteva trasformarsi in 72 ore di mancanza e nostalgia, se non mi mettevo in testa che anche senza trasferta, sarei comunque stata lontana da lui per tutto il giorno. Preoccupazione per come sarebbe stato senza di me, nessuna, che il papà me lo sono scelto speciale e la nonna sa come farlo stare bene.

Come affrontare la cosa con Enea, invece? Prepararlo, anticiparglielo, o puntare sul fattore sorpresa? 🙂 Prepararlo mi è stato consigliato di no, la percezione del tempo per un bambino di due anni è molto relativa e iniziare giorni prima a dirgli che me ne sarei andata avrebbe potuto solo creare ansia. Dirgli il perché, tornando a casa, non mi trovava invece sì, abbiamo voluto spiegarglielo. La prima sera, quando ha chiesto di me andando a letto, il papà gli ha spiegato che ero lontano lontano per lavoro e che sarei tornata presto, ma che fino ad allora avrebbero dormito da soli loro due. Credo sia stata la scelta migliore, perché i due giorni successivi Enea diceva molto tranquillamente alla nonna che “Mamma è lontano per lavoro, ma domani torna”. Quello che invece era meglio non fare era videochiamarlo. Fatto la seconda sera, la sua tranquillità è stata spezzata dal pianto. Più fatto. Whatsapp col padre e la nonna, e pace!

Ma veniamo a me, a come ho vissuto questa trasferta.

D-A — D-I-O

Starà pure brutto dirlo, ma da Mamma Degenere quale sono, è andata bene.

Mi sono goduta il fare niente del viaggio in macchina, gli argomenti distanti da cacche, sonno, virus e altre cose da mamma. Il guardare fuori dal finestrino o semplicemente  chiudere gli occhi e stare lì, così.

Mi sono goduta il tempo buttato via per le stronzate, ho finito tutte le vite di Candy Crush, e poi quelle di Farm Heroes, cercato un po’ di Hidden Objects con Sherlock Holmes e ricominciato il ciclo da capo. Che da quando sono mamma tempo per le stronzate non ce l’ho più, perché per ogni momento libero c’è qualcosa da fare, che sia una lavatrice, mettere delle foto nelle cornici, rinvasare qualche pianta, preparare un biglietto di auguri o altri oggetti fatti a mano (che gli hobby non sono stronzate, eh, ma terapie e àncore), mettere via i vestiti sfuggiti, scrivere sul blog o spippettare un po’ sulla pagina facebook di Casa Tufilla. Sono anche diventata la regina delle pause pranzo, un giorno concentrato in 1 ora (o forse, 1 ora concentrata, ogni giorno). La internet-addicted, ma per fare bonifici, comprare regali o fare la spesa.

Mi sono goduta la concentrazione nel lavoro senza preoccuparmi di cosa fare per cena, ricordarmi quella cosa che serve all’asilo, di chiamare il dottore o prenotare una visita.

Mi sono goduta il passeggiare in una città nuova, seppur di notte, seppur con i minuti contati. Senza preoccuparmi di scavalcare marciapiedi con il passeggino, trovare un posto per cambiare il pannolino o calcolare i tempi in base agli orari di Enea.

Mi sono goduta le cene e le persone, chiacchierato senza pensieri e senza distrazioni, gustato ogni boccone e sorso di vino senza controllare nessuno, senza orari in cui tornare.

Mi sono goduta 2 notti di sonno profondo, spegnendo il sensore sensibile ad ogni piagnucolìo, ad ogni parola detta nel sonno, ad ogni “Mamma, acqua”.

Ho deposto la maschera di mamma dal viso, ma non dal cuore.

Supereroe

Il mio supereroe. Degno erede di un superpapà

Ho vissuto come se Enea non ci fosse (perché effettivamente lì non c’era, beata concretezza), ma appartandomi per vedere i video che il padre mi mandava. Ho vissuto come se non avessi doveri da mamma, ma contando le ore che mancavano al mio ritorno. Ho affrontato il viaggio verso casa tenendo a bada con difficoltà l’emozione, con lo stesso fremore allo stomaco che si ha ai primi appuntamenti.

Poi sono arrivata, e mi sono goduta il rientro a casa, togliendo con calma le scarpe e la giacca, sistemando la valigia e preparandomi per la notte, prima di entrare in camera e trovarlo lì, col pigiama rosso e blu che sembrava un supereroe, il mio cucciolo russante in un lettino che inizia ad andargli stretto (dannata paura del terremoto, che non ci lascia riportarlo in camera sua).
Sono rimasta seduta sul letto a guardarlo, riempiendomi le orecchie di quei respiri pesanti che mi accompagnano nel sonno ogni notte. Addormentandomi a fatica nell’attesa di un’alba che lo avrebbe svegliato e fatto scavalcare il letto dicendo “Mamma, coccole”. Come se non me ne fossi mai andata.

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